Il mare d'inverno di qTp in un Fotoracconto Cavalleresco
Una capriola nel buco nero del passato mi riporta a Trieste dopo un capitombolo di quasi 50 anni, dagli anni della mia giovinezza bella e imprevedibile a questo “Mare d’inverno” a cui giungo con la mia nuova E5, con altrettanti sogni e utopie, ma con in più quella ragionevolezza critica che ti regala l’età, dopo averti tolto quasi tutto il resto. Allora salivo quasi di corsa la scorciatoia che mi portava in cima alla collina di San Giusto, pochi anni dopo il ritorno della città nella compagine nazionale, con la mia Vitomatic Voigtlaender , dove ogni scatto doveva essere meditato e ogni inquadratura dipendeva da un piccolo e spesso improbabile telemetro con maf a sovrapposizione d’immagine. A fianco della basilica si saliva al Castello, con la Bottega del vino, locale piuttosto “in”, dove la sera giungevano da valle in abito da sera le pulzelle triestine e i giovinotti della nuova aristocrazia cittadina. Accanto, nella chiesa, l’archetipo collettivo immaginava La “lei “ della canzonetta inginocchiata a San Giusto, pregare, con animo mesto, il ritorno di “lui” segregato nell’altra parte della città (zona B).
Sì, perché tra le cose meno plausibili di questo edulcorato modo di parlare della città da parte dei mass-media di allora, c’era il ritratto improbabile degli operai che tornavano giulivi dal lavoro: “noi lasciavamo il cantiere lieti del nostro lavoro” mentre “il campanon din-don ci faceva il coro”. Ve l’immaginate questa scenetta idilliaca presentata agli italiani, trattati un’altra volta come imbecilli, nell’epoca della disoccupazione, dei licenziamenti, dell’occupazione delle fabbriche, con alle spalle la tragedia delle foibe e dei tradimenti istituzionali? Allora il presente e il recente passato avevano un sapore amaro e un che di rabbioso, oggi è molto diverso, perché le cose sono cambiate e
soprattutto perché abbiamo imparato a rassegnarci. Il raduno di MDI è situato in zona Sistiana, tra le colline e il lungomare giuliano tra Trieste e Duino, con un gusto per me saporito di ricordi e amori letterari e non solo, primo fra tutti la figura di Rainer Maria Rilke, il grande poeta da me amato fin dagli anni giovanili, e la cui “ballata d’amore e di morte del cavaliere Cristoforo Rilke”, fu anche “galeotta” per l’amore più grande della mia vita. Un mondo cavalleresco e religioso si affaccia nella mia mente e schiaffeggia la mia anima quando finisco per fondere le passioni di Rlke, che qui soggiornò negli anni più cruciali della sua esistenza (prima fra tutte quella per la bella e “perversa” Lu Salomè che strappò alle lusinghe di Klimt e alla disperazione di Nietzsche, per tenersi tutta per sé la croce di questa donna geniale e impossibile), a rimescolare, dicevo, questo amore profano del poeta con la sua ansia religiosa così cocente e appassionata nella sua Vita di Maria. Anzi sbirciando le colline durante il mio viaggio, e prima di riuscire come un babbeo a smarrire la strada per la Baita, luogo del primo appuntamento con gli amici quattroterzisti, il mio sguardo si posava con insistenza su una specie di promontorio brullo e selvaggio ad un tempo, con sulla cima le rovine di un antico castello, dove la vegetazione si intricava in un groviglio di pietre e rami scheletriti che in lontananza sembravano disegnare tre croci, le tre croci del Golgota….E’ là credo che Rilke rivide la scena del Calvario, dove la sua Madonna disperata, grida come una madre qualsiasi alla vista del Figlio crocifisso :
“E non ti posso, Figlio, più partorire!”
Ma se mi volto verso occidente vedo un paesaggio più sereno e l’incanto misterioso degli isolotti di cui parla Umberto Saba:
Nella mia giovinezza ho navigato
lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.
Più avanti lo sguardo mi sposta verso le torri bianche del Miramar che il sole del primo tramonto rende luminose come le bianche scogliere di Dover. E qui. fermandomi presso l’albergo di soggiorno, mi trattengo a riflettere serenamente.
Sono partito con la mia nuova E5 acquistata nella speranza che Olympus non ci avrebbe deluso: dai primi scatti ho capito che il risultato è andato oltre il mio moderato ottimismo e che veramente questa macchina rappresenta il meglio che la tecnica Olympus oggi sia in grado di offrire, come suggerisce Damiano (Castway) nella sua preziosa recensione. E questo al di là dei punti che stanno a cuore dei fotoamatori tecnofili del nostro gruppo. Avere una macchina capace di stare con te senza tradirti nelle circostanze estreme del tuo reportage, nelle più avverse condizioni climatiche e in tutte le situazioni di luce, infatti, secondo il mio modo di vedere le cose, non significa scattare a 3200 Iso anche in pieno sole, come farebbe qualche frescone di nostra o vostra conoscenza, né immergere la fotocamera nella tinozza o scaldarla a bagnomaria prima di scattare. Significa avere con te uno strumento che non ti lascia in panne quando ti dirigi verso il tramonto o al primo scroscio di pioggia non si rifugi dentro il tuo giaccone o non ti costringa a comprare l’ombrello dal soccorrente marocchino, riempiendo la tua
dispensa di una collezione interminabile di parapioggia “scatò”. Nemmeno tentare la raffica per cogliere al volo due scatti su 100 per immortalare il tuo gatto in vena di acrobazie o le girovolte pirotecniche del nipote che gioca all’enduro. Una macchina professionale è quella capace di soccorrerti in ogni frangente, ma non è necessariamente un aggeggio specialistico. Per queste occorrenze vi sono altri strumenti. Da questo punto di vista credo che la E5 abbia compiuto un balzo in avanti più considerevole degli stessi dati emersi dai test a tavolino. E il tutto senza sacrificare in nulla il punto essenziale di ogni realizzazione fotografica, vale a dire la qualità dell’immagine, nel connubio con il parco ottiche a disposizione. La mia breve esperienza con questa fotocamera è incoraggiante: l’occasione di questo importante incontro dovrebbe confermarlo. Si poteva fare qualcosa di più? Naturalmente sì.
Spingersi oltre i 12mp non era un miracolo come ha dimostrato ampiamente la Panasonic con la GH2, e, soprattutto, cambiare il sensore della E30 era forse doveroso tornando sulle spiagge Kodak, come da molti invocato. Ma la riduzione del filtro antialiasing è già qualcosa, consentendoci, tra l’altro, di ottenere nella scansione cromatica un rosso più attendibile. Ma per tutto il resto, possiamo dire, restando in tema di Umberto Saba, triestino doc, “oggi è meglio di ieri/ se non è ancora la felicità” .
Mi faccio spiegare la strada per raggiungere la Baita dal portiere d’albergo, perché fa già notte, e per seguire le sue istruzioni alla lettera, finisco su uno sterrato palesemente senza vie d’uscita, e come capita sempre, il satellitare d’alto bordo che ho, non funziona e complica la situazione. Finalmente decido di far di testa mia, raggiungo la strada principale e proseguo impavidamente fino a quando colgo l’insegna luminosa della Baita che si erge come un vecchio maniero su un crinale del colle: attraverso un robusto portone di legno faccio il mio ingresso nella sala ampia dove sono allogati i prodi cavalieri quattroterzisti.
Mi accoglie, assieme all’abbraccio degli amici, la preziosa esposizione della quasi completa collezione del catalogo Olympus OM che Mirko ha raccolto con pazienza e amore in sei anni di collazione: disposti in una serie di valigette d’alluminio sfila o il tesoro di una cultura fotografica formata da fotocamere, obiettivi e accessori, nonché di libri, alcuni rarissimi. E’ un modo importante per annodare la nostra storia fotografica al presente, le radici di una cultura che è sempre stata, con alterne fortune, di nicchia, ma anche di élite, nel senso che più che accompagnare lo sviluppo tecnologico, questa tradizione ha sempre precorso i tempi, ieri come oggi. Ha lasciato un segno non clamoroso, ma un solco importante in cui spesso le altre culture si sono inserite sfruttandone le idee e talora rubandole i fasti. Oggi i suoi cultori mi appaiono, in questa situazione notturna, rinserrati in questo “maniero” riscaldato a legna, dove l’esterno è freddo e ostile, una confraternita di antichi cavalieri pronti a radunarsi in attesa dell’arrivo dei sovrani, per celebrare un rito di amicizia e di fedeltà; che è anche e soprattutto la consacrazione d’una identità riconosciuta, un atto di sincerità e di coraggio verso noi stessi e la nostra idea di fotografia, di cultura, di comunicazione e, perché no, di verità e di arte.
L’arrivo del primo big di questa foto comunità, Palmerino I Magno, desta sensazione e anima improvvisamente la scena: mentre fuori la pioggia scende sottile e la nebbia riempie i vuoti nelle pause del vento, rendendo tutti i rumori della natura notturna percepibili in lontananza, scende dal suo camper una figura segaligna , agile fra le fratte del terreno. A piccoli balzi guadagna l’ingresso come schiodando il pesante portone della Baita, intabarrato da una calda tuta con un cappuccio arancione che disegna un’ovale mistico attorno al suo volto sorridente. Malinconia intelligente di uno sguardo buono e sereno si mescola alla decisione che ha fatto della sua libertà, della sua competenza, della sua indipendenza di giudizio il simbolo della sua indiscussa autorità. Così protetto dalle intemperie e scoperto nel suo sorriso dolcissimo mi dà l’impressione di un sovrano che per scelta personale abbia scelto una strada più difficile da quella che avrebbe potuto percorrere come fondatore di questa piccola comunità. Mi appare un’autorità morale e spirituale che ora con la sua presenza legittima con sereno orgoglio il senso di appartenenza che ci unisce in questo convegno e nella quotidiana vita del forum anima le discussioni e le riconduce sempre a ragionevolezza critica. E’ l’equilibrio la dote più grande che gli riconosco, assieme alla capacità di ascoltare tutti, anche quelli che la pensano in modo così diverso dal suo, rispettando e ottenendo da ognuno rispetto e amicizia. Ora nella suggestione di questo momento magico mi appare come un “santo monaco laico” il cui saluto cordiale a tutti ha il sapore di una giusta benedizione. In tema asburgico, non posso non ricordare con un po’ di humour che anche il grande Carlo V abbandonò il suo impero “dove non tramontava mai il sole” per farsi monaco e vivere in solitudine altri giorni, pensosi e ricchi d’altre glorie, come un tempo erano stati gloriosi e implacabili quelli del suo trono… Sarebbe potuto essere oggi, Palmerino, ancor giovane e vitale, un grande reporter per le strade del mondo, ha preferito rimanere indipendente ed essere un maestro per tanti come noi, più giovani e più anziani.
Ma il senso della sua presenza fra noi dà significato a tante storie di questi amici provenuti da tutte le parti d’Italia per discutere insieme, fotografare, confrontarsi ed anche per rivederlo, riabbracciarlo sentirlo come il catalizzatore delle nostre utopie e dei nostri sogni di fotografi. Esco con alcuni amici per sentire il freddo pungente sulla pelle in una notte bella e strana dove la voce delle piccole creature della campagna si mescola col nostro respiro e dove accendo finalmente la mia sigaretta, notando che vicino a me sta facendo la stessa cosa Cinzia, impavida amazzone del quattro terzi, artista raffinata della natura, con qualche recente trascorso canonista. Ne approfitto per scambiare qualche idea su un mondo che ho da molto abbandonato e sento che le esperienze sono abbastanza comuni. Dobbiamo recarci ora nelle cantine della fattoria dove assieme ai prosciutti friulani e giuliani, visiteremo e sperimenteremo l’eccellenza del famoso vino Terrano, prodotto in questa terra tra l’Italia e la Slovenia. Ma sono attesi ancora alcuni personaggi, il grande artista del nostro forum, Lorenzo Vitali, che giungerà ripetendo la stessa vicenda rocambolesca del mio avvicinamento alla Baita (anche lui consigliato dal portiere d’albergo), e guidato dal suo satellitare che, a differenza del mio, aveva messo giudizio; infine il “capo” della nostra comunità, l’organizzatore e gestore amministrativo, Giancarlo aka Black Pixel, avvistato a pochi chilometri di distanza dal nostro rifugio.
La sfida dell’eroe e la sapienza dell’uomo
Il grande Black arriva da eroe impavido e audace, come il protagonista del Signore degli anelli, accompagnato da Monica, sfolgorante regina degli Elfi, che rinunciò all’immortalità per accompagnare nel suo cammino umano di gloria il nuovo sovrano. Il quale, dopo un periodo di oscurità, in cui venne dato per disperso, era riemerso con il nome di Billy, che qualcuno ipotizzava essere la sua “maschera di ferro”, essendo egli stato rinchiuso in una remota segreta per scontare qualche colpa misteriosa. Alberto e Sandro mi avevano confidato che il re degli Elfi gli aveva negato la mano della figlia (Monica) a causa della sua inconfessabile colpa (la sua fede interista). Ma forse sono maldicenze di perfidi juventini. Sta di fatto che, superato ogni ostacolo, si presenta per ultimo, come da copione della sua regalità, regalando sorrisi e benedizioni. Al posto dello scettro il divino reca in mano una fiammante Pentax K5 che, come ben capite, in un’adunata di quattroterzisti ci sta come i cavoli a merenda, o meglio come le trippe e i rognoni col branzino in cartoccio.
Ma a Sua Maestà è concesso ogni capriccio, e io apprezzo che, dopo aver letto la mia recensione, si sia degnato di provare questa splendida macchina, per mio giudizio, giusta e temibile rivale della nostra E5. D’altra parte, si degna di comunicarmi, bisogna provare le armi dei nemici, per poterli meglio combattere. Nell’attesa avevo potuto scambiare alcune opinioni con Palmerino a proposito del futuro del quattroterzi, ed in particolare sulla produzione di Olympus e, come solitamente avviene, mi ero trovato a concordare con lui. Quattro terzi, micro o no, è la stessa zuppa. Si tratta di comprendere dove tira il mercato e quali siano le esigenze di oggi, che per prima cosa portano ad una graduale ma indispensabile abolizione dello specchio reflex. Questo appare sempre più come un aggeggio bello e démodé, ancorché fotograficamente quasi inutile. Olympus se n’è accorta per prima, Panasonic ne ha colto astutamente i premi… Il futuro sarà giustamente quello delle fotocamere “mirrorless”, magari tropicalizzate e con un EVF di risoluzione straordinaria. E tutto questo, già in atto, deve avvenire per ragioni prevalentemente fotografiche. La visione reflex infatti, per quanto bella e affascinante in un mirino luminosissimo, non garantisce affatto una preview reale e in tempo reale, perché quello che succede nel nostro scatto è determinato dalle operazioni del sensore e del processore. La realtà si è di fatto trasferita dall’esterno oggettivo all’interno soggettivo. Pertanto la visione in tempo reale è possibile molto più efficacemente con il mirino EVF, estratta direttamente dal sensore. In effetti, suggerisco, con la GH1 io riesco a spostare lo spot sulle varie sezioni del fotogramma, trovando per ognuna le reali condizione di luce, e posso scegliere lo scatto che preferisco. La realtà non è infatti quella che che “è” ma quella che si “fa” a livello di sviluppo fisico e di scelta mentale. Ma questo lo aveva già capito il grande Nadar poco dopo il 1860. Il fotografo parigino, maestro e amico dei pittori impressionisti, diceva che la fotografia agiva come il meccanismo visivo dell’uomo: la camera oscura era la nostra retina (sensore o pellicola), il nostro occhio era l’obiettivo. Bisogna costruire fotocamere che riproducano alla perfezione questo meccanismo. Così i pittori impressionisti applicarono alla pittura questo principio, rendendo “soggettivo” quello che era (considerato) oggettivo. La realtà non era un qualcosa di predefinito e statico ma si “faceva” attraverso la nostra elaborazione mentale. E così la si poteva trasferire sulla tela. Grande Nadar! E’ il nostro padre spirituale. Se avesse conosciuto il nostro progresso scientifico e tecnologico avrebbe rubato il mestiere a Maitani e ti avrebbe inventato la fotografia digitale, la più vicina alla sua idea di composizione fotografica. Volete una fotografia originale di Nadar? La paghereste cara come un quadro impressionista!
Ci dirigiamo ora attraverso un budello sotterraneo a visitare le cantine per vedere (e assaggiare) i pregiati prosciutti e successivamente per spillare dalle botti di rovere il Terrano di Trieste. Seduto a tavola ho modo di chiacchierare piacevolmente con Enzo da Udine: la sua cordialità e innata simpatia sono pari alla sua arguta e “filosofica” visione del mondo. In poche e semplici parole Enzo riesce a spiegarmi il rebus della comunicazione umana e la legge dell’incomunicabilità, su cui la dannata stirpe degli esistenzialisti ha sprecato volumi e centinaia di migliaia di pagine e i poeti hanno versato urna di lagrime nei loro piagnistei. Lui mi fa questo esempio: “ Anche io ho postato qualche fotografia nel forum. Non se le sono ….gate nessuno. E allora sai cosa ho fatto? Mi sono risposto da solo!!!”. Perfetto, Enzo, filosofo tout-court. Hai proprio compreso tutto. Con la sapienza dell’uomo che si è fatto col lavoro e la sua intelligenza, con la praticità e il cuore della tua sapienza di secoli, senza entrare nei meandri tentacolari della masturbazione intellettualistica, col tuo bruciante humour hai compreso proprio tutto. Quello che un dotto oggi chiamerebbe “la tautologia ontologica dell’io nel drammatico e quotidiano rapporto col tu”. Ma io ti dico solo, da amico che ti stima e ti vuole bene, che ogni domanda in realtà è sempre fatta a te stesso e ogni risposta in realtà la dai sempre e solo veramente a te stesso. Solo che io ho impiegato più di 50 anni per capirlo e volumi letti e sognati, e centinaia di porte che mi hanno sbattuto in faccia uno stuolo di imbecilli. Tu invece lo hai capito in un attimo. Chapeau!
Ci sono anche il Mago Atlante e il Mago Merlino
M’inerpico verso le dolci pendici del vecchio castello medievale rimanendo un po’ indietro alla compagnia. Il tempo di incontrarmi brevemente e di salutarne l’avvento, con Ricardo da Buenos Aires, aka Baires, il grande grafico della nostra comunità, il collaboratore più diretto di Black, arrivato da Venezia il giorno seguente il raduno. In questo clima quasi da leggenda mi sembra di incontrare il grande Mago Atlante dei poemi cavallereschi. Presente in un completo nero, capelli leggermente brizzolati al vento, mi colpisce, come sempre il suo sguardo attento, quei suoi occhi scurissimi e intensi, dentro i quali colgo una profonda romantica malinconia, e una intuitiva conoscenza del cuore umano: è anche un bravo musicista, sensibile, curiosissimo di tutto ciò che lo circonda, e nello stesso tempo riservato e discreto: ma è soprattutto un vero Mago.
Quando per ragioni personali si paventava il suo distacco dal forum fummo colti da un vero e proprio sgomento. Il suo rapido ritorno è coinciso con la crescita esponenziale della qualità del nostro supporto. Inoltre con una vera e propria magia, ha portato la nostra comunità a pubblicare on line la più completa (e invidiata) rivista fotografica italiana on line (e nonsolo). “qtp Magazine” che è una vera e propria meraviglia per completezza di informazione, veste grafica leggiadra, ricchezza di contenuti culturali; come per il castello di Atlante ariostesco, si può dire del lettore che gli si avvicina :”Non vide né il più bel né il più giocondo”. Poco dopo sono superato, quasi di corsa, da due stranissimi personaggi che mi costringono ad una sosta curiosa e meravigliata. Trasalgo e mi chiedo se la mia fantasia non mi abbia indotto a improvvise allucinazioni o, come talvolta mi dice mia moglie, io non sia stato colto da un fenomeno di pericolosa “demenza senile”. Davanti a me sfilano due
personaggi singolari, un robusto ancor giovane fotografo dai neri lunghi capelli, in giaccone rosso, e un longilineo ragazzo che sorregge un sottile lungo cavalletto a cui è attaccata come una bandiera al vento una strana fotocamera dall’apparenza “panoramica”, o qualcosa di molto simile. Intuisco che possa trattarsi di Luca Vascon, esperto e docente universitario di fotografia immersiva e panoramica all’ateneo veneziano e già noto nel nostro forum per interventi autorevoli col nick name di “nessuno”. Ci intratterrà in una conferenza pomeridiana molto attesa. Certo la situazione suggestiva in cui mi sono posto e la conferma che avrò nel pomeriggio dalla sua lezione, mi delineano l’idea di una assimilazione cavalleresca: è lui l’immancabile Mago Merlino della tradizione celtica, colui che in tempi moderni, dopo aver sfatato il dubbio che fotografia immersiva non è quella che si usa immergendo nell’acqua la fotocamera, è capace di scattare una foto dalla quale risulterà che il tuo dirimpettaio a tavola lo vedrai dietro la tua schiena, rivoltato all’opposto. E’ una magia che ci sarà spiegata come possibile attraverso un laborioso processo di scatti e di calcoli e che può dare risultati sorprendenti nello sviluppo finale, consentendo oggi realizzazioni un tempo impensabili.
Avrò modo di parlargli e verificare la sua innata simpatia, la cordialità e disponibilità, unite ad un innata vocazione all’insegnamento. Ora se ne va come Virgilio alla guida di Dante per le ascese purgatoriali del suo viaggio, o meglio come un vero e proprio Mago Merlino che ha lasciato al suo discepolo in mano la bacchetta magica per nuovi prodigi. In lontananza scorgo la sagoma di Palmerino che, per i contorni sfumati dalla distanza e una leggera foschia, mi appare come il leggendario cavaliere del “settimo sigillo” che non trova di meglio che sfidare la morte in una partita a scacchi, mettendo in palio la sua stessa vita in cambio della salvezza di due giovani innamorati girovaghi. Ora lo scorgo mentre sta evitando un capitombolo alla piccola “cicchina” che, armata dell’altrettanto piccola G1, cerca di darmi un’altra lezione di umiltà. Raggiungo la cima e qualcuno mi indica in lontananza il sentiero di Rilke, laddove il grande poeta immaginò la conclusione del viaggio del mitico cavaliere Cristoforo Rilke nel suo fatale incontro d’amore e di morte. Ne parlo a Lorenzo Vitali e gli propongo di farne un racconto dedicato a questa ballata. Poi mi riservo qualche momento per scrutarlo nel suo lavoro di fotografo. Lo osservo con interesse per imparare qualcosa dal suo magistero di artista e penso che in queste circostanze ognuno reciti disinvoltamente la parte del discepolo e del maestro perché ognuno ha molto da imparare dagli altri e magari qualcosa da insegnare.
Ma l’arte non è un mestiere e non s’impara. Si può sviluppare con grande fatica se dentro hai qualcosa di originale, e istintivamente penso con grande malinconia al mio grande maestro, quello a cui devo tutto quello che sono e anche quello che non sono più, perché il suo insegnamento ha provocato una svolta radicale nella mia vita: d’allora essa è stato un costante e consapevole tentativo di imitarlo e di emularlo in tutti i campi della mia professionalità. Perché il più grande insegnamento che ho ricevuto da lui è stato, fin dal primo giorno del liceo, l’educazione rigorosa, critica e autoironica, alla libertà. Ora io credo, mentre continuo a inquadrare le mura del vecchio castello, che l’esercizio della fotografia, sia per puro diletto che per ragioni professionali e artistiche sia essenzialmente una educazione e un’autoeducazione alla libertà. E questo è già più che sufficiente per me e per tutti i nostri amici qui presenti. Nel pomeriggio, prima della lezione di Luca abbiamo avuto modo, prendendo spunto dall’esperienza dei grandi reporter Gerda Taro e Bob Capa, di parlare del nuovo ruolo del reporter oggi, del suo impegno professionale, della difficoltà di distinguere il vero dal falso in un reportage d’importanza storica. Ma l’evento più significativo di questo raduno, dal punto di vista artistico, sono le stampe proposteci da Lorenzo Vitali di un buon numero di sue foto, molte delle quali conoscevamo per tramite Web e Monitor. La resa a stampa mi appare stupefacente e ancora più accattivante. Infatti il suo bianco/nero assume non solo una rilevanza plastica di straordinaria bellezza ma i cromatismi luministici, anche nelle stilizzazioni geometriche (penso alle foto di Berlino, per esempio) creano una suggestione profonda accentuando la vocazione drammatica della sua arte fotografica. In particolare, mi par di poter dire che la vibrazione della luce, sia nel contrasto col buio, penso alle foto di Verlaine (altare con faretti sullo sfondo e vuoto delle seggiole in primo piano), sia nella distesa di bianco intenso e abbagliante tra figure nere (sempre le stampe di Berlino)creano una situazione emotiva di “evento” sulla scena, proprio nell’attimo dell’ avvento che demolisce ogni contenuto di per sé statico: la fotografia si muove in un orgasmo molecolare da leggenda visiva. Straodinario!
Miramar e l’ombra della Nemesi asburgica
O Miramare. a le tue bianche torri
Attedïate per lo ciel piovorno
Fosche con volo di sinistri augelli
Vengon le nubi.
O Miramare, contro i tuoi graniti
Grige dal torvo pelago salendo
Con un rimbrotto d’anime crucciose
Battono l’onde.
Mi soffermo in lontananza a guardare nell’unica mattina serena del soggiorno le bianche torri del Miramare, divenuto simbolo, per i famosi versi del Carducci, di quella teoria della Nemesi storica che riguardò lo strano destino della Casa d’Asburgo. In breve, per chiarire il concetto, nel 1500 Carlo V, imperatore figlio di Filippo d’Asburgo e di Giovanna di Castiglia, detta la Pazza, ereditò la sovranità di quasi tutte le Case regnanti d’Europa (Francia esclusa, peraltro sconfitta sul campo), oltreché i possedimenti d’oltremare, fondando l’impero più grande mai conosciuto. Come sappiamo, i conquistadores nel Messico ne combinarono di tutti i colori, presero con l’inganno senza colpo ferire il potere sul Messico, uccisero l’imperatore Montezuma al quale avevano promesso l’incolumità e perpetrarono uno dei tanti genocidi della storia. A ben guardare gli inglesi ad inizio Ottocento al seguito del “campione della libertà” Orazio Nelson non fecero di meglio con i patrioti napoletani e in seguito con i Boeri nel Sudafrica, ma la storia spesso è come la pasta, e la puoi tirare dove vuoi.
Le colpe del genocidio degli Azteki sarebbero ricadute sui responsabili, i sovrani d’Asburgo, che furono sterminati, specialmente quelli innocenti, vedi Massimiliano, divenuto imperatore del Messico. La nemesi è una specie vendetta immanente, una legge storica retta da un’oscura divinità (Nemesi o dea della vendetta) che fa scontare le colpe dei malvagi ai discendenti innocenti dei progenitori cattivi. Una specie di versione laica di quello che capitò a Gesù che morì, secondo la versione cristiana, innocente, per pagare le colpe di tutti gli uomini. Di questo oscuro fato, presente nella mitologia greca, si impossessarono anche i poeti, Carducci per esempio, per celebrare, compiangere o condannare le figure storiche meno popolari nel loro tempo. Con una veridicità spesso molto discutibile e problematica. Dall’alto del castello, scendendo in dolce declivio attraverso il mirabile parco, fatto edificare dal giovane Massimiliano d’Asburgo con la sua sapienza botanica, ricco di piante tropicali, si giunge al mare, sulla costa fra Trieste e Duino. Qui le onde si schiacciano sulla spiaggia dove si sporge il Miramare, mentre più ad occidente il porticciolo fa diga frangiflutto. Lo scorrere dello zoom, quando la luce ti assiste, ti fa scegliere una serie di inquadrature molto varia, con incanti multicolori tra sfumature di verde/prato e azzurro/verde mare, mentre , scendendo, i giochi d’ombra tra le piante ricamano un tessuto vestibolare e reticolare in mezzo al quale ti puoi divertire a cercare messa a fuoco e profondità di campo varia e alterna, giocando coi rami, le reti dei pescatori, spostando lo spot sulla striscia di una barca arancione o cercando la luce sulla chiglia di un’imbarcazione in lontananza.
In siffatte giornate che i nostri amici hanno ritratto con abbondanza, il mare d’inverno rivela il suo fascino incomparabile, perché alle sfumature dolci primaverili, al languore autunnale e alla sinfonia accesa dei cromatismi estivi, vi si sostituisce quell’incanto ocra e quella malia dei grigi marci, riflessi dei rami morenti, come un addio alla vita, nel perpetuo scorrere del tempo inesorabile e crudele. Leggendo al castello alcune lettere d’amore di Massimiliano alla sua sposa Carlotta, si ha l’impressione di un animo sensibile che amava la natura e la conosceva profondamente, di apertura mentale notevole, di una tempra di esperto e coraggioso navigatore. Per questo i versi del Carducci rendono palese un’ombra ossessiva e ambigua sulla sua morte e sul suo strano destino:
Addio, castello pe’ felici giorni
Nido d’amore costruito in vano!
Altra su gli ermi oceani rapisce
Aura gli sposi
E anche se, come spesso accade, lo storico smonta il giocattolo costruito dal poeta, spostando il mito della vendetta d’un dio vendicativo e crudele verso una più prosastica e verisimile “ragion di stato”, non cambia lo stupore per un altrettanto amara sorte che nel giro di pochi decenni accumulò morti a dir poco misteriose. Furono infatti vittime, di seguito, Ludwig di Baviera (cugino e forse amante di Sissy), Massimiliano, Rudy d’Asburgo, la stessa Sissy e l’arciduca Francesco Ferdinando. Il tutto avvenne sotto lo sguardo impassibile (e in molto casi colpevole) di Ceccobeppe, l’ immarcescibile e longevo sovrano dell’Impero austroungarico. Fu ideato infatti l’improbabile suicidio di Ludwig di Baviera perché si ostinò fino alla morte a non cedere all’imperialismo del cugino Francesco Giuseppe , e si organizzò la grottesca farsa di Mayerling per togliere di mezzo il rivoluzionario erede al trono d’Austria. Per nascondere ogni prova del delitto venne distrutto e ricostruito il casino di caccia di Rodolfo, che vi si era rifugiato con la compagna Maria Vetzera, venne fatto sparire l’amico e accompagnatore della coppia: restò la pistola che Rodolfo avrebbe usato con la sinistra, lui che non era mancino, per uccidere la donna che amava e poi se stesso. Il tutto senza alcuna ragione plausibile. Una congiura di palazzo aveva deciso di liberarsi di un erede al trono scomodo, rivoluzionario nel’48 e deciso a dare la libertà al popolo ungherese. La vecchia oligarchia asburgica di cui era oggettivamente complice, se non regista, Francesco Giuseppe, fu pronta a sacrificare perciò un figlio scomodo, un cugino renitente, un fratello invadente, una moglie troppo spregiudicata e moderna, un nipote troppo intelligente, armando forse anche la mano di un anarchico italiano e di un banditello serbo.
Per far fuori il povero Massimiliano invece era bastato solo consegnarlo alle sciocche mene politiche di Napoleone III, che lo spedì al capestro di Benito Juarez e dei suoi rivoluzionari messicani, dopo averlo incoronato, come imperatore-fantoccio in un paese dove per un secolo si mangiava quasi ogni giorno pane e rivoluzione. La nemesi dei poeti fu in realtà, all’occhio dello storico, una ben orchestrata industria di delitti di stato, miranti a rattoppare inutilmente un impero fatiscente retto da un sovrano indegno e cialtrone. La dotta guida turistica poi, scelta con intelligente cura dal nostro Riccardo da Trieste, straordinario e infaticabile organizzatore di questo convegno, ci spiegava che la “fatal Novara” carducciana non era la battaglia persa dagli Italiani nella I guerra d’indipendenza, ma il nome della nave che traportò Massimiliano e Carlotta dal Miramare in Messico e che ritornò riportando al castello il cadavere del giovane imperatore giustiziato in Messico assieme alla vedova regale. Questa tragedia umana e storica si compì nel giro di pochi anni, dal 1860 al 1866, e lo splendido castello asburgico resta ancora oggi una muta sentinella e un testimone implacabile. Dentro i suoi bianchi marmi che rilucono al sole freddo d’inverno le stanze ricordano la breve storia di un sogno e resistono allo scempio delle rovinose manipolazioni futuriste dell’ineffabile Amedeo di Savoia, duca degli Abruzzi.
Gli “uomini-gatto” e la giovinezza ritrovata
Nel giorno del congedo, dopo aver salutato la compagnia, mi concedo poche ore per rintracciare la “mia” Trieste, quella che 45 anni fa fu teatro del grande raduno nazionale delle rappresentanze universitarie, ospitando migliaia di giovani provenienti da tutte le città italiane. Io ero là in mezzo a tanti compagni, delegato eletto della rappresentanza genovese con un gruppo di amici. E fu l’ultimo grido forte della mia giovinezza studentesca. Trieste ci ospitò con cordialità, molta tolleranza, troppa pazienza, soprattutto di notte, quando una marea di scatenati si riversava dal centro storico alla marina senza soluzione di continuità, con tanto di schiamazzi, grida, canzoni urlate in coro. L’ultima notte fu un uragano, al punto che i locali notturni chiusero e sbarrarono i battenti. Ma le forze dell’ordine ci lasciarono in pace, visto che non ci furono danni o vandalismi, solo un’esplosione di giovinezza che, lasciate le contese politiche, finiva il proprio raduno al canto di “belle figlie facciamo l’amore/ chi non…con cuore giocondo/ quando è vecchio che cosa farà…” e il dileggio era solo riservato al corpo accademico: “ Che ci importa se voi professori/siete vecchi, cornuti e tiranni…”. Paradossalmente, e per una strana, e allora imprevedibile, svolta del destino, pochi mesi dopo, appena laureato, vinsi un concorso e mi trovai subito dall’altra parte della barricata . Mi capitò letteralmente di esaminare alcuni dei miei compagni, assieme ai quali avevo cantato a squarciagola in quella notte. Ora mi tengo stretto a quei ricordi come se il tempo non fosse passato: ho quasi pudore di fotografare con la E5 quella strada che da Borgo Tereseo conduce al Porto Vecchio, dove mi dicono entro il 2011 cominceranno i lavori di ristrutturazione. Così a Trieste capiterà come a Genova col Porto Antico, e le due città già così simili, si assomiglieranno ancora di più. Ma in questa mia “recherche” io sto cercando anche un’altra presenza, al dilà dalle mie memorie personali. Sono alla ricerca degli ”uomini-gatto” inventati da un poeta mio coetaneo, triestino doc, morto pochi mesi fa e a me molto vicino per sensibilità. Sergio Penco percorreva ogni giorno questa strada e ogni giorno si incontrava tra questi crocicchi, fuori e dentro le bettole, sui vecchi moli o presso le banchine, lungo gli scali merci, si incontrava appunto con queste strane creature, un po’ uomini e molto gatti, oppure un po’ gatti e molto uomini. Egli stesso era consapevolmente un uomo-gatto.
Trascorrono le giornate a cielo aperto
Consumando ribalderie
E dopo il tramonto si riversano nelle osterie
Per bere vino e cantare Celeste Aida
Poi sfatti ubriachi si radunano in strada
E invocano la Caritas
Sono felini
Disagghindati, pieni di tic e allucinazioni.
Pulci. Pellagra.
Per lo più sono bassi gobbi stralerci e contro il sistema,
sdegnano l’high society, il diritto di voto
e il bagnoschiuma
Tutti i miei gatti sono gatti di mare.
In sere sbilenche, se i baffi indicano alto voltaggio
o c’è qualcosa da festeggiare
si baraccano lungo i moli, si mettono in cerchio, si danno la mano.
I gatti amano la libertà, non hanno servi, non hanno padroni, non sono adottati, se mai ti adottano, se te lo meriti. Gli uomini hanno anche altri valori più importanti, o fingono di averli,
parlano di libertà, ma non sono liberi, aboliscono la schiavitù ma aspirano ad assoggettare i propri simili, costituiscono o demoliscono parentele secondo i propri interessi, si affaticano ed invecchiano. I gatti nascono e muoiono giovani. Gli uomini-gatto uniscono i difetti delle due specie e due soli pregi: sono liberi e restano giovani sempre. Come Sergio Penco.
Popolo olimpista, resta contento. La mamma ci ha procurato un giocattolo come si deve, il meglio che poteva fare, non dar retta a qualche scioccone tecnofilo che mentre critica medita già di tradirti e di passare dalla parte dei “padroni”. Olympus è in qualche modo “contropotere” e questo significa il primo gradino della scalinata all’autonomia di giudizio. Chi vi scrive quando ha temuto di essere preso per i fondelli ha cambiato aria, e ha lasciato l’università in cui era entrato dalla porta principale per scegliere di stare in mezzo ai giovani che ha sempre amato e da cui è stato sempre amato. E quando ha visto dove lo portavano le Case potenti, le ha abbandonate per entrare nella vostra congregazione. Di uomini che vogliono essere liberi, o almeno ce la mettono tutta. La casamadre vi ha dato il meglio che poteva, per dirla con Dante :”mostrò ciò che potea la lingua nostra” e la nostra lingua fotografica è il 4/3 finché dura, cioè molto, poi si vedrà, se ci saremo. In mezzo a voi a Trieste ho visto molti “uomini-gatto” e ci siamo riconosciuti in silenzio e con soddisfazione. Anche io, come Sergio, sono e voglio essere un uomo-gatto e un fotografo di gatti e di uomini-gatto. Come molti di voi, una nicchia, un contropotere, una comunità pensosa, riflessiva che ha diritto ai sogni e alle utopie. Ma mette al primo posto la ragionevolezza critica e si rifiuta di invecchiare. Come Palmerino. Sì Palmerino, libero col suo camperino.
Mi volto di scatto, perché da una specie di bettola esce con balzo felino un nero giovanissimo, o così sembra, con una pesante sacca sulle spalle, barcolla un po’ per il peso del sacco o di qualche bicchiere, mi viene incontro il tempo che io fissi i suoi occhi ridenti e bellissimi. Ho in mano la reflex e lui m’infila nell’altra aperta un elefantino di radica scura. Faccio l’atto di cercare una moneta, ma lui mi dice sorridente: “Non voglio niente. Tienilo. Ti porterà fortuna!”. Mi giro per fotografarlo, ma è già sparito. Grido grazie alla sua ombra… sono sicuro che nella sua scia c’era una coda. Era anche lui un uomo-gatto. Ci siamo riconosciuti.
Bruno Cicchetti (cicchino)